Dal #freelancecamp al periodo diversamente sabbatico

black and white street and sunlight

Qualche anno fa, mentre camminavo per il centro di Vicenza, ho visto una fotografia: una stradina in salita e la figura di un uomo in controluce che camminava verso l’ombra con una valigia in mano. Mi interessava la figura che andava da un’altra parte, immaginavo già come si sarebbe stagliata e la vedevo già in bianco e nero. Purtroppo l’uomo è stato più veloce della mia mano, quando ero pronta per scattare lui ormai entrava nella zona d’ombra – e infatti nella foto (qui sopra) occorre guardare con attenzione per vederlo, ma c’è.

Spesso ho avuto la sensazione di trovarmi così, a rincorrere qualcosa che mi sfuggiva, qualcosa che intravedevo ma poi sembrava rimanere nell’ombra. Negli ultimi anni questa sensazione ha impregnato anche il mio lavoro, e non è stato facile capire come muovermi e verso dove andare.

Per un po’ ho cercato di proseguire sulla mia strada, cercando nuovi modi di stare al mondo (del lavoro). Così sono andata al mio primo freelancecamp, con tanti dubbi e tanta fame di spunti e stimoli, ma anche con voglia di condividere le riflessioni che facevo in quel periodo. Una piccola parte del mio bisogno di rinnovamento profondo era emersa nella mia intervista verso il freelancecamp, occasione in cui ho ricevuto anche una bellissima definizione di me da parte di Alessandra Farabegoli:

Vulcanica esploratrice di identità, dispensatrice di saggezza nei momenti di sconforto altrui, traduttrice e traghettatrice di significati

Giuro che quando ho risposto alle domande le ho detto “per la presentazione fai te, io non saprei proprio come definirmi”, un po’ come ha fatto Domitilla qualche giorno fa. Gli occhi degli altri ti donano uno sguardo diverso su di te, forse non ti dicono cose del tutto nuove, ma le mettono insieme in modo tale da comporre un ritratto veritiero. Le parole di Alessandra, in questo caso, mi hanno illuminata con la loro favolosa sintesi, perché riassumono ciò che cercavo di esprimere per raccontarmi, solo che non sapevo come farlo senza apparire ridicola, sognatrice, vaga… insomma una pazza scriteriata. Eppure mi ci è voluto ancora parecchio per scoprire come tradurre quelle definizioni in qualcosa di ancora più concreto.

Al freelancecamp ci sono arrivata molto provata da pessime notizie sulla salute di mia nonna, fino al giorno del viaggio non avevo nemmeno iniziato a preparare la mia presentazione – avevo ideato lo speech mesi prima, ma oltre al mirabolante titolo, “L’insostenibile ottimizzazione dell’essere”, non avevo scritto nulla. Volevo esserci, volevo confrontarmi con gli altri, volevo parlare di ciò che mi punzecchiava il cervello, quindi ho creato le slide con l’iPhone (grazie, Keynote!) mentre ero in treno, in pizzeria e a letto fino a notte fonda, il giorno prima di parlare. Mi dicono che ne è venuta fuori una cosa bella, anche se poi durante lo speech non mi sono soffermata abbastanza sull’idea da cui era scaturito tutto: il paradosso del personal branding, in cui le persone adottano sempre più strumenti tipicamente aziendali per parlare agli altri, mentre da anni si dice alle aziende di parlare come persone. Ho parlato, questo sì, dell’ossessione di essere sempre perfetti, sempre produttivi, sempre nella ruota del criceto, spesso perdendo di vista il senso di tutto quel movimento.

Il mondo cambia in fretta e se si lavora in un settore ad alto tasso di cambiamento la velocità è ancora più alta; io a un certo punto ho cominciato a sentirmi in affanno con tutta questa velocità, a sentirmi sempre più restia al cambiamento continuo. Sentivo da tempo che mi mancavano le certezze, e non erano quelle del mercato del lavoro. Sentivo di aver bisogno di sedimentare gli eventi e i pensieri, e non riuscivo a farlo mentre continuavo a muovermi. E soprattutto sentivo che mi mancava la lucidità, che cominciavo a fare male le cose, che la troppa confusione mi toglieva l’aria, che tornavano a bussare alla mia porta sintomi di cose già vissute – esaurimento, depressione – che non volevo più subire. Dovevo, anzi volevo cambiare dentro.

Così ho colto al volo un’occasione e sono entrata in un mondo lavorativo diverso, in quattro e quattr’otto mi sono tolta di dosso la paura e ho avviato il mio processo di metamorfosi e ridefinizione (non solo) professionale, quello che io chiamo periodo diversamente sabbatico. Non potendo permettermi un periodo di non-lavoro da dedicare alla ricerca e allo studio, ho cambiato completamente modalità di lavoro: ho chiuso la partita iva e ho iniziato un part time al progetto Cercando il lavoro, del comune di Vicenza. Ora mi muovo, dunque, all’interno di una cornice più grande di me, senza tutto il peso delle decisioni sulle mie spalle, con spazio in abbondanza per sperimentare e progettare, con meno fretta. Non durerà per sempre, lo so bene, ma mi consentirà di avere un minimo di sicurezza per un po’ di mesi, di scegliere con cura le collaborazioni occasionali e di iniziare a rimodellare la mia professionalità senza gettare alle ortiche ciò che ho imparato finora. E in più mi dà la possibilità di contaminarmi con altri campi che non avrei frequentato altrimenti.

È stato proprio il coordinatore di Cercando il lavoro, Juri Devigili, a darmi la chiave di lettura giusta per comprendere dov’era la fessura più importante nella mia costruzione. Una volta gli dicevo che facevo tanta fatica a gestire me stessa, figuriamoci gestire un’attività in proprio! Lui mi rispose che il mio problema non era nella gestione, ma nel fatto che non avevo un’attività, bensì facevo tante cose: è molto diverso. Quindi ho preferito mettere in discussione tutto, ma proprio tutto tutto tutto, non con l’intenzione di fare tabula rasa ma di lasciarmi la libertà di ricombinare in qualsiasi ordine e con qualsiasi finalità gli elementi in mio possesso. Senza pormi limiti. E in effetti ho trovato dei filoni tematici che possono contenere molte delle cose fatte in passato, da sviluppare a mio piacimento: la formazione (con una buona dose motivazionale), la gestione della conoscenza e soprattutto l’architettura dell’informazione.

Non so di preciso dove mi porterà questa fase di ricerca, studio e sperimentazione, ma è un percorso che mi rende felice e voglio viverlo fino in fondo. E soprattutto non sento più che le cose mi sfuggono, ci sono sempre meno zone d’ombra nella mia vita perché ho iniziato, finalmente, a scegliere e a decidere.

Sì, è una specie di grande (parziale) bilancio perché è il mio compleanno – e perché non faccio grossi bilanci a capodanno bensì piccoli e continui bilanci durante tutto l’anno – ma è frutto di lunghe riflessioni che ho fra le meningi da mesi, perfino anni. Evviva :-)